Alla scoperta di Bisenzio

Testi tratti da Capodimonte, Guida alla scoperta di R. Di Stefano, Annulli Editori

 

Il Monte Bisenzio 

A circa 4 km da Capodimonte, sulla sponda sud-occidentale del lago di Bolsena, si eleva il Monte Bisenzo (nome storico) o Bisenzio (nome in uso attualmente) la cui sommità e le cui pendici furono abitate da antichissime civiltà. Prima dell’arrivo dell’uomo, anche il Monte Bisenzio, come risulta da analisi geologiche, era una delle tante bocche eruttive minori del grande apparato vulcanico vulsino (per metà il cono craterico del colle è crollato nel lago), proprio come l’isola Bisentina, la Martana e il “Lagaccione” (una depressione orografica situata alle spalle del monte, nella cui conca si formò un lago le cui acque persistettero fino a pochi secoli fa). 

 

L’altura presenta fianchi molto scoscesi nel versante prospiciente il lago ed è ricoperta da un bosco lussureggiante nella parte più alta e da campi coltivati, pascoli e begli uliveti sui pendii meno ripidi che guardano verso l’interno. Un luogo completamente disabitato, ad eccezione di qualche casale ai piedi del colle. Eppure, percorrendo i suoi viottoli o passeggiando sui declivi nei campi lavorati dagli agricoltori, si sente quasi un respiro, un fremito sacro provenire dal suolo… Ogni pietra affiorante dalla terra ha qualcosa da raccontare e sembra sussurrare al visitatore la sua antichissima storia…

Il Monte Bisenzo costituiva infatti l’epicentro di un insediamento le cui origini risalgono all’età del Bronzo, fu ininterrottamente popolato durante l’età del Ferro e poi in epoca etrusca. Dopo un periodo di crisi nell’età classica ed ellenistica, l’area fu nuovamente abitata in epoca romana, medievale, rinascimentale fino a decadere completamente nell’800 con il trasferimento degli ultimi abitanti sul vicino promontorio di Capodimonte.

 

Lo splendore della città di Visentium

Il primo insediamento stabile, di cui sono state rinvenute tracce risalenti all’età del Bronzo Finale (X sec. a.C.), era posto sulla sommità del monte ed era costituito da capanne di dimensioni variabili a pianta circolare o ellittica, proprio come quelle urne “a capanna” ritrovate nelle tombe coeve, che riproducevano le abitazioni protovillanoviane. Gradualmente e ininterrottamente questa piccola comunità locale si sviluppò fino a costituire un abitato che raggiunse dimensioni significative a partire dall’età del Ferro (avanzato X-VIII secolo a.C., fase denominata “villanoviana”), come testimoniato dalla ricchezza delle necropoli circostanti.

Probabilmente l’insediamento aveva uno sbocco sul lago, oggi sommerso, il che dimostra che allora il monte non aveva il suo lato esposto ad est a strapiombo sull’acqua, come ora, ma era preceduto da una striscia di terra di circa 200 metri che lo separava dalla riva del lago. Un prolungamento dell’abitato situato nell’arco di costa compreso tra la scogliera di Punta San Bernardino e il monte Bisenzio è stato ipotizzato da diversi studiosi (data la presenza di ruderi sommersi). Tutto il territorio della città era quindi molto più esteso di quello che noi oggi possiamo vedere, essendo la linea di costa molto più avanzata verso il centro del lago rispetto a quella attuale.

 

 

Nella prima fase villanoviana l’abitato non presentava un fitto tessuto urbano, ad eccezione del pianoro sul monte e del terrazzamento artificiale poco più in basso. L’insediamento era costituito, in realtà, da gruppi di abitazioni sparse anche al di fuori delle pendici del monte, sulla piana circostante e, forse, in zone del litorale oggi sommerse. Solo verso la fine dell’età del Ferro, i piccoli villaggi cominciarono probabilmente a formare un nucleo unitario, una “città” che assunse un ruolo egemone nel quadro del popolamento dell’area. Abitazioni, botteghe artigiane, magazzini, stalle, piccoli pascoli e campi coltivati a orti costituivano il tessuto del grande insediamento.

Con la transizione al VII sec. a.C., a seguito di un lungo periodo di influssi irradiatisi dalle regioni costiere maggiormente esposte agli stimoli egei e vicino-orientali, emergono in modo prorompente nei corredi sepolcrali di Bisenzio le caratteristiche tipiche della cultura materiale etrusca. Nell’abitato, le capanne vennero sostituite da costruzioni in muratura: sono stati individuati sia sulla sommità del monte che lungo le pendici (sulla terrazza artificiale) e nel territorio contiguo tratti di muri pertinenti ad abitazioni etrusche realizzate in blocchetti di tufo con coperture a tegole e coppi, di produzione locale.

Purtroppo il nome della gloriosa e fiorente città etrusca è sconosciuto. Solo in epoca romana, infatti, per la prima volta Plinio il Vecchio citò, elencando una cinquantina di popoli dell’Etruria al tempo di Augusto, i Vesentini, insieme ai “Tarquinienses, Tuscanienses, Veientani, Arretini, Falisci, Blerani, Florentini, Graviscani, Nepesini, Perusini, Vetulonienses”, ecc., tutti di stirpe etrusca. Dal demotico del popolo, Vesentini, è stato ipotizzato che il toponimo latino della città etrusca fosse Vesentum, probabilmente errato dal momento che tutte le epigrafi latine riportano Visentium. Questa denominazione è rimasta immutata fino ai tempi del basso medioevo. Secondo alcuni studiosi, il nome deriverebbe da Esens (=bronzo, in etrusco), mentre, secondo altri, da Ves (=fuoco, in italico); nel primo caso il toponimo ricorderebbe la straordinaria abilità dei Bisentini di lavorare il bronzo, nel secondo caso la «città del fuoco» rievocherebbe i terribili eventi sismici e vulcanici di cui questo territorio è stato a lungo testimone.

Sono le importanti ricerche archeologiche, iniziate nella seconda metà del XIX secolo e proseguite fino ai giorni nostri, che hanno permesso di constatare l’interessante somiglianza di Bisenzio con le più grandi città costiere etrusche (Cerveteri, Tarquinia e Vulci) e anche con Veio, a nord-ovest di Roma, e che ci fanno capire quanto fosse prestigioso e fiorente questo centro dell’Etruria meridionale interna, ben collegato agli altri grandi empori commerciali. Oltre alle innumerevoli tombe, sono state infatti rinvenute porzioni di due importanti assi viari che collegavano Visentium agli altri centri dell’Etruria: uno era il selciato di una via che partiva da Bisenzio, costeggiava il “Lagaccione” e si raccordava alla via Clodia nei pressi dell’odierna Piansano (esattamente a Maternum); un’altra strada, incrociando la precedente, costeggiava il lago e, attraverso la macchia di San Magno, proseguiva verso la città etrusca situata sul colle di Civita nel territorio dell’odierna Grotte di Castro. Si tratta di due porzioni di un’efficiente rete stradale etrusca (e successivamente romana) che, partendo dalle città costiere di Vulci e Tarquinia e, attraversando l’Etruria meridionale interna, collocava Bisenzio al centro di dinamici traffici commerciali. 

Il periodo di massimo sviluppo della città va dalla metà dell’VIII al VII secolo a.C., quando, grazie alla sua posizione geografica, era diventato un importante centro di smistamento e di scambio delle merci in contatto con Tarquinia, Vulci, Vetulonia, Marsiliana, Poggio Montano (Vetralla), Statonia, Falerii, La Rustica (Roma), Veio, Chiusi. In epoca arcaica (VI sec.), come precedentemente accennato, è verosimile che Bisenzio rientrasse nella giurisdizione territoriale della ricca e potente Vulci, mentre altri centri più meridionali, come Cornossa (2,5 km a est dell’attuale Marta), sembra che ricadessero sotto il controllo di Tarquinia.

Non si ha una stima precisa del numero di abitanti della città nel periodo di massima espansione; certamente siamo nell’ordine delle migliaia. Per quanto riguarda l’estensione dell’abitato, le ultime stime degli studiosi ruotano attorno agli 80-90 ettari. Le fonti di epoca romana indiziano l’esistenza di un acquedotto (forse di epoca arcaica, ma purtroppo ancora non vi sono certezze scientifiche su questo). La città aveva probabilmente delle mura o forse una doppia cinta muraria (grossi blocchi squadrati sono stati rinvenuti in diversi punti del territorio ma, nuovamente interrati, oggi non sono visibili). 

Alla fine del periodo etrusco, intorno al VI-V sec. a.C., vi fu una contrazione dell’abitato visentino (forse dovuto alla progressiva esclusione di Bisenzio dalle maggiori correnti di commercio stabilite da Vulci, capitale del distretto), la cui comunità tornerà a riaffermarsi solo nel I sec. a.C. quando Visentium divenne municipio romano (90 a.C.) e, successivamente, borgo medievale che sopravvisse fino al definitivo abbandono, avvenuto (non così tanto tempo fa) al principio del XIX secolo.

 

Delle glorie passate e della intensa e laboriosa vita degli antichi abitanti, oggi non resta che un luogo ameno e disabitato, una campagna che in ogni suo punto offre panorami mozzafiato. Nessuna traccia visibile della cinta muraria, che allora proteggeva il centro abitato, nulla delle case e delle botteghe… Se si intraprende il percorso che dalla strada asfaltata retrostante il monte porta alla sua sommità, si giunge presto all’entrata del bosco: antichi lecci, querce, castagni offrono d’estate un fresco riparo al visitatore, il quale può scorgere qua e là solamente alcune pietre residuali dell’antico e glorioso passato, tratti di muri in blocchi squadrati, qualche antica grotta, una grossa cisterna, fino a giungere ad una struttura rupestre molto particolare, situata nella parete nord del Monte, che le vicissitudini della storia ci hanno voluto lasciare: un colombario con le sue numerose nicchie scavate nella roccia e con una splendida e luminosa finestra sul lago di Bolsena dalla quale si vede, ritratta come in un quadro d’autore, l’isola Bisentina che posa distesa come una dea sulle acque. 


 

La “Piccionara”

Il colombario del monte Bisenzo è costituito da una doppia camera di superficie complessiva di circa 28 m2 e altezza di 2,5 m. L’ambiente, contenente centinaia di cellette perfettamente allineate, è illuminato da un finestrone irregolare che, affacciandosi sul lago, consente di ammirare un panorama meraviglioso. La grotta scavata nel tufo risalirebbe, secondo alcune ipotesi, ad epoca etrusco-romana e avrebbe avuto una funzione funebre: ogni nicchia avrebbe accolto, secondo questa interpretazione, un’olla con le ceneri del defunto. Secondo altre interpretazioni, tale struttura serviva ad assolvere alla funzione di allevamenti di volatili. La tecnica di allevare i piccioni in grotte appositamente scavate dall’uomo era infatti diffusa già nell’antichità (come riferito da Plinio, Varrone, Columella e altri storici) e, successivamente, in epoca medievale, fu ripresa con vigore. A questo utilizzo si legherebbe l’appellativo di “Piccionara” adoperato dalle popolazioni locali. 

Osservazioni da parte di appassionati di culti antichi hanno mostrato che all’alba del giorno del solstizio d’estate vi è un perfetto allineamento dei raggi solari con la parete di separazione dei due vani, producendo un’illuminazione insolitamente intensa nella zona più buia della stanza occidentale. Ciò fa ipotizzare l'esistenza di questo luogo di culto in epoche antecedenti a quella etrusca. Diversi monumenti cultuali, sparsi in varie parti del mondo (tra cui Stonehenge in Inghilterra), presentano particolari allineamenti astronomici con un significato mistico-simbolico attribuito alla penetrazione del sole nel ventre della terra. 

 


 

Le ricerche archeologiche

Chi erano gli abitanti di Bisenzio? Come vivevano? Quali erano le loro attività principali? Quali i loro culti? A tutte queste domande hanno tentato di dare risposta le numerose campagne di ricerca archeologica che hanno esplorato il territorio sin dal 1864 (le prime notizie di ritrovamenti di sepolture a Bisenzio risalgono, comunque, già alla fine del ‘500). Fra le più importanti ricordiamo quelle condotte dal Conte Giovanni Paolozzi da Chiusi (al cui museo egli lasciò in eredità la sua splendida collezione di reperti etruschi), che iniziò gli scavi in collaborazione con i fratelli Enrico e Napoleone Brenciaglia, proprietari dei terreni interessati, e le cui risultanze furono esposte in accurate relazioni redatte dal professor Angelo Pasqui (1886) sulla presenza di tombe di epoca protostorica, che subito destarono grande stupore e ammirazione fra gli archeologi; ma anche quelle documentate dal prof. Milani (1894), il prof. Quagliati (1895), il prof. Galli (1912, 1917), il Cav. Benedetti (1927-1931), il prof. Paribeni (1928), il prof. Bazzica (1933), il prof. Foti (1956-’57), il prof. Colonna (1965, 1969). Delle campagne effettuate tra i primi anni ’70 e gli inizi degli anni ’80, ricordiamo le ricognizioni del GAR (Gruppo Archeologico Romano), le indagini di superficie attuate sui declivi circostanti il colle da due studiosi tedeschi dell’Università di Göttingen, Klaus Raddatz e Jürgen Driehaus, e infine gli interventi di scavo archeologico svolti sulla sommità del monte e su una delle terrazze immediatamente sottostanti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale e dal C.N.R. (M.A. Fugazzola Delpino e F. Delpino). Sempre in questi anni furono condotte interessanti ricerche subacquee da Alberto Di Mario sulla sponda sud-occidentale del lago tra la località Fosso Spinetto e Punta San Bernardino. Negli anni ’90 le ricerche di I. Berlingò portarono in luce nell’area sepolcrale detta “Olmo Bello” una strada, un pozzo e alcune statue litiche zoomorfe di tipo vulcente, segnalando così la presenza di attività rituali a scopo funerario.

Nel 2015 è stata intrapresa nel territorio di Bisenzio un’importante campagna archeologica ad opera di un gruppo di studiosi di varie nazionalità e coordinata dall’archeologo dr. Andrea Babbi, attualmente ricercatore dell’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale del CNR e ricercatore ospite del Centro Leibniz per l’Archeologia di Mainz, in Germania. Il Bisenzio Projecttuttora in corso, è interdisciplinare e vede la partecipazione non solo di archeologi, ma anche di geologi, geofisici, antropologi, storici, esperti di cartografia digitale, di archeometria, di archeozoologia, di archeobotanica, ecc. di vari enti europei e d’oltreoceano. 

Il progetto prevede un complesso insieme di analisi multidisciplinari che, seguite da campagne di scavo a cui hanno partecipato e parteciperanno anche i membri della Sezione di Capodimonte di Archeotuscia, consentono di rivivificare questo meraviglioso sito ormai disabitato e sepolto sotto la polvere del tempo.

La ricerca portata avanti nel Bisenzio Project (così come gli scavi del 2018 della Soprintendenza nella necropoli delle “Bucacce”, i cui reperti purtroppo non sono ancora stati ripuliti, studiati, restaurati ed esposti al pubblico), grazie al coinvolgimento della comunità locale, hanno permesso negli ultimi anni di riaccendere l’interesse per la lunga storia di Bisenzio, città “invisibile” ma molto presente nel cuore dalla popolazione locale.

 

Bisenzio, Campagna 2022 - Studenti delle Università di Mainz e Wien e volontario della Sezione di Capodimonte di Archeotuscia odv al lavoro (The Bisenzio Project, foto di Erika Thummerer)

Bisenzio, Campagna 2022 - Studentessa dell'Università di Bonn e volontaria della Sezione di Capodimonte di Archeotuscia odv al lavoro (The Bisenzio Project, foto di Andrea Babbi)

 

Il patrimonio delle necropoli 

L’importanza della città di Visentium si può rilevare dalla vastità della sua necropoli, la più estesa fra quelle esistenti intorno al lago di Bolsena: i numerosi nuclei sepolcrali, disseminati come ad anello intorno all’area dell’insediamento, si estendono dalla periferia nord-occidentale della odierna Capodimonte fino alla località di San Magno (comune di Gradoli); si tratta di un’ampia fascia di territorio larga 2 km e lunga 5,5 km. Il seppellimento dei cadaveri non era permesso all’interno della città; per questo le sepolture non toccavano la sommità e i declivi della maestosa collina, dove sorgeva invece l’abitato con la sua arx (l’acropoli) e, forse, con i suoi templi (alla triade celeste Tinia, Uni e Menrva, rispettivamente Giove, Giunone e Minerva). Molto probabilmente, come abbiamo detto, era una possente cinta muraria che separava le abitazioni dalle necropoli rinvenute ed esplorate. Esse sono: Piana di San Bernardino, Bucacce, Porto Madonna, Polledrara, Olmo Bello, Piantata, Palazzetta, Poggio della Mina, Fontana del Castagno, Poggio Sambuco, Valle dello Spinetto, Valle Saccoccia, Grotte del Mereo, Poggio Falchetto, ecc. 

  

 

I tipi di tombe rinvenuti variano a seconda delle epoche storiche e della condizione sociale dei defunti e le sepolture individuate erano disposte anche su due o persino tre strati: 

  • Le tombe ad incinerazione a “pozzetto”, di forma cilindrica (mediamente 1 m di diametro e 1,50 m di altezza) sono state ritrovate ad una profondità da 3 a 5 metri; a volte erano rivestite con custodie in pietra per proteggere i corredi funebri, oppure contenevano un grosso dolio, detto “ziro”, con l’urna cineraria e qualche oggetto personale all’interno. Le ceneri del defunto erano abitualmente poste all’interno di un vaso biconico (coperto con una lastra litica oppure una ciotola). Hanno restituito i corredi più semplici e soprattutto più antichi; infatti, il rito incineratorio caratterizzava precipuamente la prima fase villanoviana (fine X- inizi IX sec. a.C.). Alcune urne cinerarie, tra le più antiche, hanno una caratteristica forma a “capanna” con base rotonda o ellittica (diverse quelle ritrovate a San Bernardino); una di quelle rinvenute presenta una notevole esuberanza decorativa con l’inserimento di figurine antropomorfe sul tetto. Sono impressionanti le somiglianze tra questo tipo di usanza arcaica di Bisenzio e altri centri dell’Etruria: simili urne cinerarie a capanna, ad esempio, sono state rinvenute anche a Tarquinia, Vulci, Vetulonia, Saturnia, Populonia e sui colli Albani. 

  • Le tombe ad inumazione a “fossa”, a volte con “cassa o cassone” di tufo (alcune con ulteriore cassa in legno) di circa 2 m x 90 cm, situate ad una profondità non inferiore a 2 m, potevano anche appartenere a famiglie piuttosto agiate, come desunto dai corredi rinvenuti. Nella necropoli dell’Olmo Bello, in particolare, le sepolture femminili sono caratterizzate dal coperchio a doppio spiovente, mentre quelle maschili hanno un coperchio curvilineo, ma vi sono anche coperchi a quattro pendenze con sommità ora a spigolo ora a piramide tronca (questi ultimi appartenenti a defunti di alto rango sociale). Un particolare interessante osservato nei pesanti coperchi tufacei è costituito dagli incavi sui bordi, che consentivano lo scorrimento delle funi adoperate per calarli sui cassoni. Alcune tombe a fossa quadrata contenevano le ceneri in un ossuario e quindi erano ancora del tipo a cremazione. Il rito inumatorio, infatti, cominciò a diffondersi nel villanoviano evoluto accanto all’incinerazione, che comunque perdurò come retaggio di un ristretto gruppo sociale ancora legato a questa usanza, stavolta come simbolo di elitario privilegio aristocratico. I corredi funerari di questo nuovo tipo di tombe alludono al rito simbolico del banchetto ed evidenziano nuove classi di materiali che denotano un miglioramento delle condizioni economiche ed esprimono un soffio innovatore nell’arte bisentina (specie in quelle del VIII-VII sec. a.C.), un bisogno da parte degli artigiani del tempo di più elaborate forme artistiche, alcune delle quali denotano contatti culturali con i popoli del Levante mediterraneo. Buccheri finissimi, ricchi oggetti d’uso ornamentale, ceramiche tardo-geometriche di imitazione greca, oggetti in bronzo e di oreficeria, molti dei quali risalenti alla fase detta “orientalizzante” (fine VIII-inizi VI sec. a.C.), denotano una grande maestria artigianale, influenzata dall’ampliamento dei contatti di Bisenzio con i centri dell’Etruria costiera dove circolavano prodotti originali greci, in primo luogo con Vulci e Tarquinia, nelle cui sfere di influenza si venne a collocare e i cui commerci favorirono la fusione della cultura etrusca con lo spirito ellenico.

  • Meno numerose ma più ricche erano le tombe a “camera” rinvenute nella scogliera tufacea di Bisenzio (soprattutto nelle zone: Grotte del Mereo, Poggio Falchetto, Fontana del Castagno, Fontana del Mascherone, Coste San Silvestro), già note all’epoca del Ducato di Castro (metà del 1500), gran parte violate da ignoti scavatori di frodo, alcune delle quali hanno comunque restituito preziosi corredi funebri. Alcune di queste tombe presentano una colorazione rossa per raffigurare la trabeazione del soffitto displuviato.

 

I reperti rinvenuti nel corso dei diversi scavi sono la testimonianza dell’alto grado di civiltà delle antiche popolazioni di questi luoghi e ci fanno comprendere che esse consideravano la tomba come la casa del defunto, un luogo in cui l’anima, benché separata dal corpo, conservava ancora le necessità e i gusti della vita terrena; da qui la presenza di quelle suppellettili e di quegli oggetti quotidiani che erano stati più cari al defunto. Il numero dei manufatti costituenti il corredo che accompagnava il caro estinto nella nuova dimensione oltre-mondana e il loro valore materiale, oltre che estetico e tecnologico, sono un riflesso del prestigio sociale di cui si fregiò in vita l’individuo sepolto. In alcune tombe della metà dell’VIII secolo è possibile notare l’esibizione di un certo sfarzo gentilizio, il che documenta un’aumentata ricchezza e quindi l’esistenza di un compiuto processo di stratificazione sociale. Il ricorrere di forme, decorazioni e procedimenti manifatturieri chiaramente affini a quelli che caratterizzavano le produzioni mediterranee e centro-europee, alquanto distanti, costituisce una conferma della complessa rete di contatti cui le famiglie preminenti bisentine prendevano parte, in particolare tra VIII e VII secolo a.C.

Ecco un breve elenco delle varie tipologie di reperti rinvenuti:

  • Numerosi i vasi di pregevole fattura: ad impasto rosso dipinti con motivi geometrici bianchi (white on red), in bucchero (argilla nero-lucida ottenuta tramite fumigazione in ambiente chiuso), ceramica attica d’importazione a figure nere su fondo rosso o giallo. La presenza nei corredi di vasi per liquidi (vino, acqua, latte, olio), come anfore, oinochoai e olpai (brocche), kylikes (coppe) e hydriai (grossi vasi a tre manici), tripodi (vasetti a tre piedi), crateri e colini rivela non solo la ricchezza e il rango sociale dei defunti, ma anche l’importanza rituale del vino nel passaggio all’aldilà. E ancora: ciotole, tazze, askoi (piccoli vasi a un’ansa usati per conservare e versare l’olio nelle lampade), olle. Caratteristici della produzione bisentina sono i piccoli vasi accessori (a volte interi servizi da mensa), i vasi doppi, i vasi a corpo di volatile, quelli a botticella e gli antichissimi vasi “a barchetta” della prima fase villanoviana, i quali conferiscono alle manifatture di Bisenzio un tratto di originalità e di riconoscibilità.



 

A Capodimonte vi è un artista, Roberto Bellucci, membro della Sezione di Capodimonte di Archeotuscia, conosciuto per le splendide riproduzioni delle ceramiche bisentine.


Creazioni ceramiche di Roberto Bellucci

  • Oggetti in bronzo fuso in parte decorati con baccellature: armi in miniatura, lampadari, incensieri, focolari, candelieri, grattugie, spiedi, graticole, aghi per cucire, fusaiole e navicelle per telai (filatura, tessitura e tintura erano attività prettamente femminili molto diffuse), specchi rotondi dotati di manico con belle raffigurazioni mitologiche nella parte posteriore, situle (secchielli metallici), fibule (spille di sicurezza), rasoi, i famosi bronzetti chiamati tyrrhena sigilla (rappresentanti idoletti sacri, giocattoli, statuine da soprammobili) insieme ad altri oggetti miniaturistici, asce, puntali di lance, frecce, giavellotti, elmi e scudi (alcuni molto belli, con decorazioni geometriche sbalzate). Una delle produzioni esclusive delle officine metallurgiche bisentine per la lavorazione del bronzo era quella dei sandali in legno snodabili foderati con lamina di bronzo, a volte con lacci in maglia d’oro, i quali venivano anche esportati (alcuni esemplari sono stati rinvenuti in Grecia); queste particolari calzature non rigide, bensì snodate per favorire il movimento della pianta del piede, testimoniano l’alto grado di civiltà del popolo etrusco, unico all’epoca ad indossare calzari (solitamente scarpe appuntite). Visentium rappresentava insieme alla vicina Volci uno dei principali centri di lavorazione del bronzo nel cuore dell’Etruria e vantava industrie di elevatissimo artigianato siderurgico: uno dei vasi bronzei più belli, ritrovato nella necropoli dell’Olmo Bello e conservato al Museo Nazionale di Villa Giulia a Roma (h = cm 32), è una situla riccamente decorata con figurine plastiche di uomini armati con scudi e lance in una sorta di parata interrotta dal sacrificio di un toro, altri nell’atteggiamento di eseguire una danza propiziatoria intorno ad un animale mostruoso incatenato, forse una divinità infera. Si tratta di rappresentazioni ricche di contenuti simbolici che sono pregnante espressione delle ideologie, dei rituali e dei costumi propri della nascente aristocrazia che nei decenni finali dell’VIII secolo a.C. si avviava in Etruria a detenere il potere politico. Proveniente dalla stessa zona e custodito nello stesso museo è un pregevole carrello votivo bruciaprofumi con quattro ruote a sei raggi (h = cm 27), anch’esso con figurine plastiche umane e animali (fra cui uccelli, cani, buoi, un lupo, cervi, stambecchi e scimmiette) raffiguranti scene venatorie, agricole, guerriere, ma anche di vita domestica, nel quale è ripreso lo stile della bronzistica di Vulci, che si caratterizzava proprio per la presenza di forme antropomorfe. Questo eccezionale oggetto, ritrovato in una sepoltura in cassa lignea dell’VIII sec. a.C., apparteneva ad un personaggio femminile di altissimo rango, come si è potuto dedurre dal resto del corredo: fra gli oggetti di ornamento vi era una bella collana d’oro e delle splendide fibule a sanguisuga in bronzo, ambra e oro, accompagnate da strumenti per la filatura e la tessitura.

  • Oggetti in ferro: resti di asce, lance, pugnali e spade, focolari (alcuni dei quali mobili, su quattro ruote), alari e palette tirabrace.
  • Gioielli: anelli, orecchini, bracciali spiraliformi, pendagli, medaglioni di lamina d’oro decorata a sbalzo, spirali d’oro per stringere le trecce o i ricci, nastri fermacapelli d’oro, fibule a sanguisuga, collane in ambra, pasta di vetro, bronzo, argento e oro; rari scarabei egittizzanti. Nella lavorazione dei metalli preziosi, gli Etruschi erano veramente insuperabili, specialmente nella tecnica della granulazione della filigrana. Vale la pena ricordare, fra gli oggetti in oro ritrovati a Bisenzio, una protesi dentaria rinvenuta nella mandibola superiore di una donna, nella quale tre denti erano legati tra loro da una striscia in lamina d’oro, che rappresenta il più antico (VI sec. a.C.) reperto odontoiatrico sul suolo italico!

 

Il declino di Bisenzio

Dopo un lungo ed ininterrotto periodo di vita e fioritura, la comunità visentina, verosimilmente già in crisi nel corso del V e IV secolo a.C., andò inesorabilmente incontro alla conquista romana. Brevemente ricordiamo che dopo la caduta di Veio (nel 396 a.C. ad opera del dittatore romano Mario Furio Camillo), potente baluardo che impose ai conquistatori un assedio decennale, e la più facile conquista di Sutri, i Romani divennero sempre più minacciosi per l’Etruria centrale, fino a quando, nel 310 a.C., con il valico della “spaventosa” Selva Cimina, le sorti delle popolazioni lacuali vennero irrimediabilmente segnate: distruzioni e saccheggi costrinsero le prospere e pacifiche famiglie etrusche a lasciare i centri abitati e a cercare rifugio nei boschi. La distruzione di Visentium rientrò molto probabilmente nel teatro di guerra di Vulci nel 280 a.C., quando furono contemporaneamente distrutte anche l’abitato etrusco di Civita (presso Grotte di Castro), Maternum e Verentum (nel piano di Valentano). Più tardi, nel 265 a.C. capitolò anche l’ultimo baluardo militare etrusco, la Volsinii-Orvieto.

Negli anni tra il 298 e il 280 a.C., quindi, il territorio di Bisenzio fu attraversato da sanguinose guerre, dovute alle mire di conquista dei Romani sui territori dell’Etruria, e progressivamente il prestigio della gloriosa città lacustre fu indebolito, fino ad arrivare alla fondazione nel 90 a.C. del Municipio di Visentium (nome noto da iscrizioni latine rinvenute nella zona) che resistette fino alla caduta dell’Impero. Sebbene non esistesse più la ricca e popolosa città etrusca che dominava il grande lago, anche la Visentium romana rappresentava un importante centro urbano, fiorente e dotato di buone linee difensive; agiate famiglie vivevano in grandi ville collegate da percorsi interni, oltre che da una viabilità perilacuale. 

 

Del periodo romano sono giunti fino a noi solo scarsi e sparpagliati resti fra cui soprattutto iscrizioni epigrafiche, alcune delle quali riportano la denominazione di Visentini (ad esempio un’iscrizione onorifica del Senatus Populusque Visentinus, dedicata nel 254 all’imperatore Valeriano). 


 

Nei campi coltivati della pianura a nord-ovest del Monte Bisenzo (tra il Fosso Spinetto e Poggio Falchetto), dove probabilmente sorgeva il municipio romano, non restano che innumerevoli frammenti disseminati di tegole, marmi, pietre murali, pezzi di basolato stradale, parti residuali delle cosiddette “saracinesche” (robusti edifici agrari per il deposito del grano o di altri cereali) e un grosso mausoleo funebre, che forse marcava il tratto extra-urbano di una delle vie principali dell’abitato. 


 

Interessante è una lapide dedicata ad uno sconosciuto “Curator aquae veteris”, che ci informa dell’esistenza di un antico acquedotto che serviva la città. Importanti sono le iscrizioni dedicate a Marco Minato Gallo, il più celebre duumviro (il magistrato più alto) del municipio di Visentium, appartenente alla Tribù Sabatina, a cui vennero riconosciuti grandi meriti nella gestione della politica municipale; ad esempio, quella posta ai piedi della croce all’entrata del cimitero di Capodimonte recita: VIRTVTI VISENT SACR M. MINATI M. F. SAB. GALL. II. VIR. I.D. QVINQ. MATERNVS F. PATRIS SVI H. C. ET OB DEDICATIONEM HONORARIAM VICANIS EPVLVM POPVLO CRVSTVLVM ET MVLSVM DEDIT.  

 

Tra gli altri cippi onorari o funerari dedicati ad illustri cittadini romani appartenenti a illustri famiglie gentilizie, vi è quello dedicato a Gaio Ligurio Salutare, preposto dall’imperatore al governo della città di Saturnia, che fu fatto erigere a Visentium, forse sua città natale, dai Decurioni di Saturnia come pubblica riconoscenza per la buona amministrazione della città; esso recita: C. LIGURIO C.F. SAB. SALVTARI A[ULO]GAVIO FORTVNATO. CVR. REIPVBL. EX EPISTVLA… CVRIONES SATVRNIENSES. PECVNIA PRIVATA QVOD. ADHIBITA. MODERATIONE ET RP STATVM FOVERIT. ET VNIVERSIS CONSVLVERIT. 


 

Di carattere religioso è, invece, un’iscrizione latina su un cippo ottagonale che riporta la dedica alla dea Minerva Nortina, venerata in particolar modo a Volsinii, ma evidentemente anche a Visentium: MINERVAE NORTINAE SACR. L.AEBVTIVS L.F. SAB. SATVRNANVS.



 

Nella prima epoca imperiale l’agro visentino doveva presentarsi costellato di due tipologie di insediamenti: i vici e le villae. I primi erano aggregati di case e terreni rurali strettamente dipendenti dal municipium; presunti vici erano ubicati a Poggio Metino presso Piansano, al porticciolo di Capodimonte, a Villa Fontane presso Valentano, a Latera, a Gradoli, nelle isole Martana e Bisentina e a Marta sullo sbocco dell’emissario. Le villae erano in genere situate in zone panoramiche (come ad esempio sulla collina di S. Antonio, di fronte al lungolago di Capodimonte, oppure sulla Piana del Giardino), avevano a volte delle strutture termali annesse o ambienti con monumentali ninfei (ad esempio in loc. Valle Gianni presso Gradoli) e ad esse facevano capo dei latifondi lavorati da manodopera servile.

Al tempo dei Romani il quadro geopolitico del territorio aveva subito un cambiamento radicale: mentre il popolo etrusco era ordinato in una Confederazione di dodici Città-Stato, dette “lucumonie” (il cui santuario federale, il Fanum Voltumnae, dedicato al dio Voltumna, era il luogo presso il quale si tenevano le riunioni periodiche – i concilia Etruriae – dei rappresentanti della dodecapoli), in epoca romana scomparvero le antiche circoscrizioni lucumoniche e l’Etruria, come altri territori controllati dai conquistatori, fu suddivisa in più piccole circoscrizioni amministrative chiamate Municipi, ognuno dei quali era autonomo, aveva la propria magistratura e le proprie assemblee amministrative. Visentium, ad esempio, aveva un suo Senato, una Curia e un Tribunale. Mentre nel periodo etrusco Visentium apparteneva alla lucumonia di Vulci, nel periodo romano essa venne a trovarsi sotto l’influenza della nuova Volsinii, ubicata poco sopra l’attuale Bolsena e ormai divenuta predominante sul territorio dal punto di vista economico e amministrativo, anche grazie all’accorciamento dell’antica Via Cassia ad opera dell’imperatore Traiano agli inizi del II sec. d.C. con la costruzione della Via Traiana Nova, che spostò le correnti di traffico dalla riva occidentale a quella orientale del lago, decretando così la decadenza delle città che sorgevano lungo più antichi assi viari, come Visentium

Vi fu sicuramente una “etruschizzazione” della civiltà romana, in quanto tutto il buono che vi era nella cultura e nel patrimonio etruschi fu interiorizzato e irradiato dai Romani nel loro impero. Ma l’antico splendore era ormai perduto e la città di Bisenzio, benché iscritta alla tribù Sabatina (la stessa di Vulci) e benché accogliesse una colonia di cittadini romani che sull’ameno colle vivevano un’esistenza piuttosto tranquilla, continuò una vita stanca e oscura, all’ombra della emergente Volsinii che faceva sentire la sua supremazia sui paesi rivieraschi. Lontana dalle guerre civili che costellavano il dominio romano, Visentium, era comunque una città abbastanza florida, dedita soprattutto all’agricoltura e alla pesca, con belle abitazioni e una efficiente rete stradale, ma isolata rispetto alle mutate correnti commerciali che si sviluppavano sulle nuove vie consolari. 

 

Un tempio e una catacomba 

Lasciando il Monte Bisenzo e procedendo sulla strada verso Gradoli, si giunge alla spiaggia, costeggiata dalla strada bianca, conosciuta come “lago dei contadini” che per circa un chilometro si estende ruvida e selvaggia, con acque basse e cristalline.


 

Lungo questo bel percorso, un importante sito archeologico ci offre informazioni relativamente alle attività cultuali della Visentium repubblicana: un tempio mitraico databile intorno alla fine del II secolo d.C., scavato nel costone tufaceo a poche decine di metri dal lago. I toponimi locali, Grotte del “Mereo” e “Merellio” di S. Magno, appaiono come una reminiscenza del luogo di culto, il “mitreo” appunto. Il mitraismo, religione misterica di origine persiana, si affermò in tutto l’Impero Romano verso la fine del I sec. d.C. e giunse alla sua massima diffusione verso la fine del secolo successivo. Figura centrale del culto pagano era il dio Mitra, rappresentazione del sole, dio delle armi e campione degli eroi. Gli iniziati avevano la possibilità di pervenire all’aeternitas attraverso sette sfere planetarie. I membri di una comunità mitraica erano suddivisi in sette ranghi ognuno dei quali si trovava sotto la speciale protezione di un corpo celeste; a ciascuno, poi, era associata una porta, un giorno della settimana, un animale e un metallo. Il culto mitraico si diffuse in particolar modo presso i militari e i piccoli funzionari romani. Il luogo di incontro dei seguaci era il “mitreo”, una caverna naturale, di solito già utilizzata in precedenti culti religiosi locali, che veniva riadattata. Il turista che visita per la prima volta il tempio mitraico di Visentium, situato presso Poggio Falchetto (vicino a due nuclei di tombe a camera), non può non restare affascinato dal suo mistero. Esso si presenta come un grosso antro a pianta rettangolare (circa 11 m x 5,6), alto 2,5 m. Verosimilmente, in precedenza era una tomba etrusca. È ipotizzabile che in origine si trovasse ad una quota superiore all’attuale, che fosse preceduto dal consueto vestibulum (un’entrata separata, di cui restano solo delle tracce) e fosse accessibile attraverso dei gradini. Il lungo corridoio centrale, sovrastato da una volta a botte fortemente ribassata, è affiancato dai podia, dei sedili su cui si sdraiavano gli adepti per assistere alle cerimonie e partecipare ai banchetti sacri. Sotto di essi si possono osservare sette nicchie semicircolari (quattro a destra e tre a sinistra) scavate nel tufo, che chiaramente alludono alle porte di accesso alle sette sfere planetarie e quindi sono riferite ai sette livelli di purificazione. Lungo i podia vi sono dei cippi (tre per ogni parte) scolpiti a rilievo nel tufo, dove poggiavano probabilmente delle statue, e alla base si notano delle nicchiette usate forse per l’alloggiamento delle lucerne. Il fronte della cella posta in fondo al santuario, dove si svolgeva il culto, è decorato da un bel timpano scalpellato a rilievo, verosimilmente sorretto da pilastrini (ormai crollati). Nel pavimento centrale, sotto al timpano, leggermente spostata a destra, è visibile una fossa che probabilmente serviva da incasso per un’ara oggi scomparsa. Le pareti e il soffitto del naos dovevano essere affrescati con dipinti (di cui non vi è più traccia) probabilmente con la tipica scena di tauroctonia (uccisione rituale del toro da parte di Mitra).



 

Altro sito veramente suggestivo, anch’esso situato in un terreno privato, è una catacomba risalente al IV-V secolo, che testimonia l’esistenza di una comunità cristiana visentina. Ubicata a circa 700-800 metri a ovest di Bisenzio, alla periferia della “Piana del Giardino”, dove sorgeva la Visentium romana, non è facilmente raggiungibile; per questo è consigliabile farsi accompagnare da una guida. L’antro, scavato in un costone tufaceo presso il fosso Spinetto, è enorme: è profondo 13 m, lungo 27 ed ha un’altezza di oltre 5 m, ma vi sono gallerie più basse nella parete di fondo ingombre da detriti. Ospita diversi tipi di tombe: a “loculo” (cavità rettangolare con lato lungo a vista), a “arcosolio” (sormontata da una nicchia arcuata), formae pavimentali (fosse scavate nel pavimento) e “cubicoli” (camere sepolcrali, forse per gruppi famigliari). I loculi e gli arcosoli erano un tempo chiusi con laterizi, i cui frammenti sono stati rinvenuti negli accumuli di terra. La catacomba conteneva 250-300 sepolture, ma nulla resta degli arredi (iscrizioni, suppellettili, corredi funerari, pitture). In origine il grande spazio dell’antro era diviso in tre vani rettangolari paralleli e comunicanti, ma le pareti tufacee divisorie sono crollate o sono state demolite per utilizzare l’ambiente come ricovero per animali. Lo schema dei tre grandi vani, comunque, è riscontrabile anche in altri cimiteri sotterranei paleocristiani dell’Etruria Meridionale (ad es. a S. Eutizio, presso Soriano nel Cimino, a Nepi, a Falerii Novi, presso Civita Castellana, e a Sutri). 




È significativa la presenza nel territorio dell’antica Visentium di due luoghi relativi a forme così diverse di religiosità, il mitreo (pagano) e la catacomba (cristiana): in qualche modo, essi costituiscono la testimonianza della strenua battaglia combattuta dalla Chiesa a partire dal 324 d.C. (quando l’imperatore Costantino dichiarò il Cristianesimo l’unica religione ufficiale dell’impero) per il sopravvento sul paganesimo, battaglia che fu molto intensa sulle sponde del lago di Bolsena, dove l’affermazione sui culti pagani precedenti fu un processo lungo e faticoso. Basti pensare all’assimilazione di figure, simboli e luoghi sacri pagani che, ancora in epoca medievale, la Chiesa operò sul territorio volsiniese (un esempio significativo fu la “sovrapposizione” cristiana sull’antichissimo rito primaverile della fertilità celebrato a Marta, oggi conosciuto come festa della Madonna del Monte o delle “Passate”).

 

Dal Medioevo ad oggi

Il percorso di sviluppo del municipio di Visentium nei primi secoli del Cristianesimo si concluse alla fine del III secolo d.C. con l’invasione dei Visigoti, le cui spaventose devastazioni furono narrate da Procopio di Cesarea nel De bello Gothorum, e successivamente con l’occupazione dei Longobardi intorno all’VIII secolo d.C., come riportato da Paolo Diacono nella sua opera De Gestis Langobardorum, che racconta delle terribili distruzioni in tutto il territorio. La Bisenzio romana fu completamente rasa al suolo: nulla più restava delle sue opere pubbliche, delle strade imperiali, dell’acquedotto, delle case e delle botteghe artigiane; ogni forma di arte, di cultura e di vita civile fu spazzata via e la successiva rinascita di tutta quest’area fu molto lenta e faticosa.

Le distruzioni ad opera dei Longobardi (intorno all’anno 749) e la conseguente miseria ridussero tutta la Tuscia Langobardorum in una terra desolata, come riportato dallo stesso pontefice Gregorio nella sua raccapricciante descrizione dei luoghi, e fra questi Bisenzo che, dopo le devastazioni, faticosamente tentò di risorgere. Ma nel IX secolo il centro fu nuovamente vittima di rovinose incursioni, stavolta ad opera dei Saraceni, a causa delle quali molte famiglie dei paesi rivieraschi (non solo Bisenzo, ma anche il nascente Capodimonte, Marta e Gradoli) dovettero cercare rifugio nelle due isole del lago di Bolsena, dove costruirono le loro abitazioni e le loro chiese.

La riorganizzazione del territorio, dopo la cacciata dei Saraceni da parte delle truppe pontificie ed imperiali, portò alla costituzione del Patrimonio di San Pietro in Tuscia con a capo un Rettore residente in Montefiascone. Ma le proprietà terriere della Chiesa erano inframezzate, a quel tempo, da Castelli appartenenti a potenti famiglie nobiliari, come quella di stirpe germanica degli Aldobrandeschi, che dominava un vasto territorio del Grossetano comprendente anche vari Castelli situati nell’ampio bacino del fiume Marta, fra cui proprio Bisenzo.

È in questa fase storica che i destini di Bisenzo e di Capodimonte si incrociano e si fondono. Il promontorio lavico su cui sorge Capodimonte, infatti, prima di questo periodo, all’epoca del maggiore sviluppo della vicina città di Bisenzo, aveva ospitato solamente qualche piccolo insediamento di famiglie etrusche (come testimoniano alcuni reperti archeologici). Successivamente, dopo la distruzione del municipio romano di Visentium (VIII sec.), molti abitanti sopravvissuti alle invasioni barbariche si rifugiarono nelle zone circostanti, dando origine ad alcuni borghi, e un piccolo nucleo si trasferì proprio sulla penisola di Capodimonte, in posizione più sicura, circondata su tre lati dalle acque del lago. 

A partire dal secolo XIII sia Capodimonte che Bisenzio dovettero piegarsi al dominio dei “Signori di Bisenzo” (un ramo degli Aldobrandeschi di Sovana), venendo così a trovarsi, sotto il Comune di Orvieto, cui la famiglia si era sottomessa già nel 1220 prestando giuramento di fedeltà al potente libero Comune. Di quell’epoca si conosce il nome del parroco della comunità di Bisenzo: Don Migliore.

Sul dominio di Capodimonte e Bisenzo, accomunati in quel periodo da una triste storia fatta di esecrabili angherie e dei più atroci delitti, cominciarono ad alternarsi vari signori della famiglia dei “Guitti” di Bisenzo (Guittone, Guitto, Guittuccio, ma anche Giacomo, Nicola, Tancredo, Galasso, Vanne, Cataluccio…), sotto l’egemonia ora del comune di Orvieto, ora di Viterbo e della Chiesa, a seconda delle convenienze. Per la povera gente che abitava la Val di Lago furono questi tempi assai tristi e dolorosi, poiché i signorotti che si alternavano nel possesso dei vari castelli commettevano le più orribili prevaricazioni, tanto che il termine “guitto” è giunto a significare, nella tradizione locale, persona malvagia e scellerata. 

Le cronache medievali ci raccontano le successive interminabili ed estenuanti guerre tra i signori e i baroni del tempo, che si innestavano nel quadro più ampio della lotta perenne tra guelfi e ghibellini e che giunsero, nel 1316, a vedere addirittura Bisenzo e Capodimonte contrapposti l’uno contro l’altro, essendo i Signori di Bisenzo ghibellineggianti, mentre quelli di Capodimonte erano orientati al guelfismo. 

Nel 1369 il pontefice Urbano V costituì la Diocesi di Montefiascone e sia Bisenzo che Capodimonte (quest’ultimo nel frattempo aveva superato numericamente la città di cui diventerà erede, nonostante il flagello della peste bubbonica del 1348 avesse sterminato ben i due terzi delle popolazioni locali) furono annessi alla nuova sede vescovile, cessando pertanto di appartenere al Vescovato di Orvieto, pur restandovi uniti politicamente. Le due comunità rimasero a far parte dei possedimenti dei Signori di Bisenzo (eredi degli Aldobrandeschi di Sovana) fino al 1385, anno in cui passarono in possesso della famiglia FarneseSappiamo infatti che Bisenzo era stato venduto a Ranuccio IV Farnese. Si aprì, così, un periodo di pace e di migliori condizioni di vita.

Papa Paolo III nel 1537 creò il Ducato di Castro (Bolla Videlicet Immeriti del 31 ottobre) affidandolo al figlio Pier Luigi Farnese al quale 51 capifamiglia di Capodimonte, convocati nella Chiesa di S. Maria Assunta nella Piazza del Castello (oggi Piazza della Rocca), prestarono giuramento il 6 gennaio 1538 e, due giorni dopo, 6 capifamiglia di Bisenzo, radunati davanti alla Chiesa di S. Rocco (sostituita dall’attuale chiesetta di S. Agapito) fuori del Castello di Bisenzo, prestarono il medesimo giuramento di fedeltà e omaggio.

Da allora, la popolazione seguì le vicende del Ducato fino al 1649, anno in cui la città di Castro fu completamente distrutta dalle milizie di papa Innocenzo X, dopo la prima guerra (1641-1644) che contrappose le famiglie Farnese e Barberini. Bisenzo e Capodimonte passarono sotto il diretto dominio della Chiesa, venendo così ad essere amministrati dalla Camera Apostolica, mantenendo comunque la vecchia legislazione farnesiana del Ducato sino all’Unità d’Italia.

Il centro gravitazionale della vita dei signori e del popolo si era quindi spostato da tempo da Bisenzo a Capodimonte, poiché il primo perse sempre più importanza fino a spopolarsi quasi completamente, anche a causa degli incendi e soprattutto della malaria prodotta dalla palude acquitrinosa del Lagaccione, lago situato alle spalle del Monte Bisenzo. A tale proposito, ricordiamo che nella Informazione e cronica della Città di Castro e di tutto il suo Ducato del 1630 di Benedetto Zucchi al Duca Odoardo Farnese, si legge che nella zona del Lagaccione, prima del suo prosciugamento (mediante l’apertura di uno sbocco verso il lago, nelle vicinanze della strada Verentana, e la successiva realizzazione di un canale sotterraneo di drenaggio), avvenuto poco dopo il 1600, «non vi era pericolo né di camparci, né di invecchiarcisi», tanto era malsana l’aria. La popolazione aveva preferito di gran lunga l’aria salubre di Capodimonte. 

 

Dopo la caduta di Castro (1649) e il ritorno del territorio sotto il dominio della Chiesa, sappiamo che nel 1790 la castellania di Capodimonte, Marta e Bisenzo venne concessa in enfiteusi (diritto di pieno godimento dietro pagamento di un canone annuo) da papa Pio VI al marchese Pietro della Fargna che vi rinunciò nel 1804, perché troppo onerosa. Nel 1805 passò in enfiteusi perpetua alla famiglia Brenciaglia. Nel 1808, la Camera Apostolica, costretta al mantenimento dell’esercito di occupazione francese, dovette alienare al principe polacco Stanislao Poniatowski il diretto dominio (la proprietà legale ma non il possesso e il godimento effettivo) della castellania di Capodimonte, Marta e Bisenzo, che nel 1822 passò alla famiglia Torlonia e, più tardi, per affrancazione definitiva, alla famiglia Brenciaglia (che già l’aveva in enfiteusi).

La coesistenza pacifica delle due comunità di Capodimonte e Bisenzo proseguì fino al 1816 quando, finalmente, papa Pio VII aggregò ciò che restava della comunità di Bisenzo a quella più grande di Capodimonte che divenne, così, erede dell’antica e ormai scomparsa città etrusco-romana di Visentium, antica dominatrice del lago, gradualmente ed inesorabilmente decaduta fino a spegnersi all’inizio del XIX secolo

 

Del lungo periodo medievale e post-medievale a Bisenzio resta poco o nulla, in quanto i materiali del Castello di Bisenzo e dell’abitato circostante sono stati riutilizzati in epoca rinascimentale per costruire nuovi edifici nel “borgo” dell’odierno Capodimonte, anche quelli dell’antica cattedrale di Bisenzo, dedicata a S. Giovanni Evangelista, che era situata sulla sommità della collina. Al suo posto, nel 1752 fu eretta una chiesina ai piedi del monte, dedicata a S. Rocco (oggi a S. Agapito), nella quale si tenne, il 21 ottobre 1804, l’ultimo consiglio comunale di Bisenzo per l’elezione del nuovo curato. La parrocchia di Bisenzo continuò a sussistere fino al 1873, quando venne soppressa dal nuovo governo d’Italia. La chiesetta, la cui parrocchia rurale fu ripristinata nel 1905 per interessamento del Cav. Napoleone Brenciaglia, prese il nome di Chiesa di S. Agapito



 

 

Crediti fotografici: Museo Nazionale di Villa Giulia (Roma), Museo della Rocca Albornoz (Viterbo), Museo Archeologico Nazionale di Chiusi, British Museum (Londra).